Non sono mai riuscita a definire in modo preciso Joyce Carol Oates. Potrei dire che è una delle autrici contemporanee più prolifiche dal momento che ha al suo attivo più di 50 libri (ho perso il conto in verità) senza contare quelli scritti con pseudonimi, i libri per bambini, le opere teatrali e le poesie … Io la seguo su Twitter, è molto attiva anche lì, mi fa sorridere spesso con le sue battute caustiche, mi piace vederla alle prese con il giardino o con le persone a lei care, questa donna minuta ma così piena di energia, di forza! La straordinarietà di Joyce Carol Oates sta nel fatto che non c’è genere che non abbia sperimentato e in cui non eccella, sfido qualunque critico a incasellarla, costringerla in un unico genere o definirla in modo preciso. Se volete farvi un regalo per natale vi consiglio i 4 romanzi che compongono l’epopea americana: Il giardino delle delizie, I ricchi, Loro, Il paese delle meraviglie pubblicati tutti da Il Saggiatore (se vi piace leggere sul Kindle li trovate anche ad ottimi prezzi).

Quattro romanzi per quattro storie che non sono legate tra loro ma che rappresentano un magnifico affresco dell’America e del sempre agognato sogno americano che negli anni si è trasformato assumendo significati differenti da una generazione all’altra pur conservando le stesse aspettative. La prosa di Joyce Carol Oates è stupenda, l’autrice ama particolarmente le descrizioni in cui io trovo sia maestra perché non risultano mai didascaliche e arricchiscono le storie rendendole accattivanti, coinvolgenti. I 4 romanzi:

Il giardino delle delizie:

“Campi di segale sotto il sole abbacinante dell’Arkansas. Le mani strappano i frutti dalla terra, la terra prude e si mangia le mani. I braccianti arrancano nel meriggio insieme ai cavalli e il sogno americano è un abbaglio nell’afa, una zacchera di fango sulla schiena, un canto di nostalgia e speranza spezzato dalle spighe del grano. Clara è la figlia di due contadini e trascorre l’adolescenza a correre tra gli odori aspri ed erbosi delle piantagioni, e a rubacchiare oggetti insignificanti nei negozi per divertimento e noia. Vagheggia un futuro di emancipazione, ricchezza e amori idilliaci; fantastica di evadere dalla promiscua violenza del suo mondo provinciale gettandosi con abbandono in ogni avventura: prima con Lowry, fascinoso e ribelle apolide che la strappa alla famiglia e l’abbandona subito dopo averla ingravidata; poi con Revere, facoltoso uomo già sposato che Clara seduce in cambio di una promessa di stabilità economica; infine con suo figlio Swan – l’ennesima speranza di riscatto, l’estrema illusione di una riscossa impossibile –, destinato però a diventare un uomo violento e autodistruttivo e a far naufragare anche gli ultimi sogni della madre. Primo capitolo dell’Epopea americana di Joyce Carol Oates, Il giardino delle delizie racconta l’America proletaria degli anni cinquanta e sessanta, l’America white trash, avida di scalate sociali e rivincite, cianotica per i pugni incassati dai bastardi nelle bettole e dalla vita. Manescamente sordida, fumeggiante e sognatrice. Attraverso gli occhi di una ragazza fragile e bellissima, straziata dai desideri e dai demoni sociali ereditati – che ricorda nella sua tormentata grazia la Pamela di Samuel Richardson –, Oates tesse una storia di abusi e violenze, un ritratto impareggiabilmente realistico di quella impetuosa fiumana americana che travolge e annega i suoi figli, attirandoli ai margini dell’esistenza, senza possibilità di ritorno, nel miraggio di un paradiso terrestre, un giardino delle delizie che si rivela, alla fine, una terra desolata.”

Lo ha tradotto Francesca Crescentini, è il mio preferito, racconta l’America proletaria, l’America dei lavori nei campi, della vita vissuta sotto il segno della sopraffazione e dove anche i sentimenti vengono dopo ciò che è materiale, non c’è spazio per gli scrupoli e per i rimorsi. Il fulcro della storia è il riscatto sociale ma l’autrice si sofferma anche sullo sviluppo economico che ad un certo punto travolgerà il paese portandosi dietro cambiamenti positivi e negativi. Il romanzo è stato scritto a metà degli anni Sessanta anche se l’autrice ha voluto rivederlo e revisionarlo completamente credo nel 2002. Le due figure centrali del romanzo sono Carleton Walpole che domina la prima parte (è la voce narrante) e sua figlia Clara, le vite di questi due personaggi sono l’emblema dell’America di quel particolare periodo storico, io trovo che siano due figure tragiche che rappresentano meravigliosamente la fragilità dell’animo umano, i vizi, i demoni che governano le persone in ogni tempo.

I ricchi:

Una Cadillac gialla si accosta al marciapiede di Labyrinth Drive. È una mattina di gennaio: c’è neve sulla strada e sull’erba. L’aria è fragrante, crepita come una lastra di ghiaccio sotto la pressione di un tacco a spillo. Dalla Cadillac scende una donna: ha una sciarpa di visone intorno al collo e occhiali da sole che scintillano nella luce invernale; il suo incarnato è quello di una bambola di porcellana: pallido, puro, perfetto. La donna si chiama Natashya Romanov Everett, Tashya per tutti, Nada per suo figlio Richard. Il povero Richard, il grasso Richard, l’ombroso, schivo Richard che non si sente una persona ma uno dei comprimari nei romanzi della madre; i romanzi che hanno reso lei immensamente popolare e ricca, e lui sempre più schivo, sempre più ombroso. Qualcosa di oscuro si agita dietro gli abbaini della villa di Labyrinth Drive, e nessuno steccato bianco, nessun filo di perle, nessun cocktail party può nasconderlo: è il cuore nero e pulsante dell’America più irreprensibilmente wasp, l’America democratica e progressista, l’America di Kennedy e di Carter, l’America delle magnifiche sorti e progressive, l’America che cela, dietro le sue medaglie al valore, un volto sinistro. L’America che Joyce Carol Oates conosce in modo così intimo, l’America che ha già raccontato in Una famiglia americana e che qui viene deformata in una maschera carnascialesca, tanto più inquietante quanto più grottesca. Nel secondo capitolo dell’Epopea americana, Joyce Carol Oates si allontana dai toni drammatici del Giardino delle delizie per inscenare una commedia nera degna di Vladimir Nabokov e Edward Albee; una pantomima in cui il riso non è mai sciolto dall’amarezza del pianto, una satira acida e corrosiva che dissolve impietosa, davanti agli occhi del lettore, i colori pastello del sogno americano. Qui ci troviamo di fronte ad una sorta di memoir, è opera di finzione o c’è anche qualcosa di vero?

Siamo a New York e l’autrice ha preso di mira la classica famiglia di bianchi benestanti, le ipocrisie legate a certi ambienti, racconta la distruzione di una famiglia che in seguito ad un evento drammatico tira fuori il peggio mostrando tutti i lati più negativi della disfunzionalità. Se penso alle donne della Oates mi vengono in mente sempre personaggi che finiscono per subire, per accettare una certa sottomissione agli uomini pur riservandosi il diritto di reagire al momento opportuno. In questo romanzo mancano del tutto i toni lirici e le descrizioni de Il Giardino delle delizie, riesce però a scavare nelle coscienze dei personaggi e a catturare il lettore con un trucco bellissimo che garantisce sempre la massima attenzione … il romanzo nel romanzo.

Loro:

Un colpo di pistola nella notte, Bernie Malin è un uomo morto. Loretta, la giovane amante che giaceva di nascosto con lui, fugge, portando in grembo Jules, il figlio illecito di quel tragico rapporto. È il tramonto degli anni trenta in un’America patriarcale e sanguinolenta: le prostitute passeggiano davanti ai collegi cattolici, l’aria odora di polvere da sparo e temporali, i giovani crescono nell’ossessione del potere, delle macchine costose, del denaro facile. Lo spettro della Seconda guerra mondiale si avvicina a grandi passi minacciando il sogno americano, e quando gli uomini vengono chiamati alle armi madri e figli devono lottare da soli con tutti i mezzi possibili per sopravvivere. Loretta – che ha trovato nel matrimonio con un vecchio poliziotto l’illusione di una protezione –, Jules e la seconda figlia Maureen iniziano così a spostarsi di città in città alla ricerca di una nuova vita, precipitando in giri di malaffare e criminalità, incontri torbidi e stupri, in una Detroit offuscata di edifici grigi e refoli sulfurei. Loretta affronterà il dolore della vedovanza e di un altro fallimentare matrimonio; Jules troverà nella delinquenza e nella politica la strada per emanciparsi da una situazione di minorità; Maureen verrà coinvolta in un giro di prostituzione e, una volta scoperta, sarà ridotta in fin di vita dalle botte dell’ennesimo marito della madre. Nel terzo capitolo dell’Epopea americana, Joyce Carol Oates riscrive il racconto epico dell’America spregiudicata e selvaggia, dalla Grande depressione fino alla sommossa di Detroit del 1967, la più tragica rivolta civile della modernità. Le storie di Loretta, Maureen e Jules – fratello spirituale del Julien Sorel di Il rosso e il nero – sono intrise di satira e miraggi apocalittici, viaggi di fortuna e corse in ospedale, incubi abissali e sogni microscopici in cui il destino sembra aver scelto la sua vittima sacrificale: loro.

Anche in questo romanzo la famiglia ha un ruolo centrale e la trama si sviluppa su eventi ancora una volta tragici, la violenza è protagonista, è sociale, è razziale, è politica. Qui la ricchezza diventa sinonimo di libertà ma è anche uno strumento difficile da utilizzare, anche in questo romanzo il benessere economico è importantissimo ma è fonte di degrado morale, di sopraffazione, di umiliazione.

Il paese delle meraviglie

"Il piccolo Jesse apre la porta di casa. Alle sue spalle, il padre apre il bagagliaio dell’auto da cui sono scesi: forse c’è un regalo dentro, pensa Jesse, forse un albero di Natale. Apre la porta e un odore dolciastro, di carne, lo investe. Poi vede gli schizzi rossi a terra. Vede suo fratello Bobby, la testa girata da un lato, gli occhi aperti ma spenti. Poi alza lo sguardo e li vede tutti: sua sorella Jean, riversa accanto a una lampada rotta; Shirley con le braccia strette al ventre; la madre in poltrona, con la testa rovesciata indietro, la gola squarciata. E il sangue, il sangue dappertutto, a terra, sotto le suole, sulle pareti. E il rumore della porta che si apre di nuovo, i passi del padre, il clic del fucile, e Jesse che inizia a correre, attraverso il sangue, e poi fuori, nel buio della notte, inseguito dagli spari… Salvo per miracolo dal massacro che ha sterminato la sua famiglia, oggi Jesse Vogel è un neurochirurgo di fama, uno scienziato dall’intelligenza acuminata e dalla curiosità morbosamente deforme, attirata da tutto ciò che è strano, inquietante, mostruoso. Come la comune hippie in cui fugge sua figlia Michelle, attratta in quel bizzarro inferno di droga e deliri lisergici da un carismatico, vampiresco guru della controcultura, Noel, fratello spirituale dei telepredicatori infervorati di loro. Jesse, moderno cavaliere in armatura sfavillante, farà di tutto per riprendersi Michelle, ma non c’è consolazione che attenda la giovane fanciulla in pericolo, e la sua salvezza assomiglierà a una dannazione… Nel quarto e ultimo volume della sua Epopea americana, Joyce Carol Oates si rivolge alla tradizione del romanzo gotico per raccontare la definitiva, postrema trasformazione del sogno americano in incubo: le ataviche colpe familiari che avvelenavano gli interni di Nathaniel Hawthorne sono, qui, quelle di un’intera nazione, che ha smarrito ogni innocenza, ogni grazia originaria. Il giardino edenico delle delizie è sfiorito, e al suo posto si aggroviglia un soffocante paese delle meraviglie da cui nessuna Alice può fuggire. È il paradiso perduto. L’America di oggi.

L’idea di famiglia per Joyce Carol Oates lo abbiamo capito … non si porta dietro serenità, amore e rispetto, non in questi quattro romanzi. Qui la violenza è efferata, un padre stermina tutta la famiglia, si salva solo Jesse che cercherà salvezza in una famiglia facoltosa in cui però c’è sempre un padre misogino, anaffettivo, indifferente e che crede di assolvere ai suoi doveri col denaro.

Qui l’America è esplicitamente descritta come la terra promessa, come il futuro radioso per il mondo intero:

L’America è benedetta da Dio. L’America è tutti gli uomini, tutta l’umanità benedetta da Dio e che spinge verso l’esterno, sempre verso l’esterno nell’ambire a un altro mondo, ambiamo a essere assimilati a Dio in un’essenza protoplasmatica superiore… Sebbene molti di noi qui riuniti siano spaventati dal futuro, io credo che dovremmo sapere che gli Stati Uniti sono una nazione unica nel suo genere, benedetta e potente, e che essa non può essere conquistata, non nel corso della nostra vita o in quella dei nostri figli… Gli Stati Uniti hanno qualcosa di magico. I nostri sono tempi magici…

Questo monologo mi ha ricordato un delirio trumpiano …

Jesse cercherà per tutto il romanzo di dissociarsi dal suo passato, è un personaggio triste, vuoto, senza radici, è così indaffarato ad emanciparsi che raggiunti i suoi obiettivi (ancora il denaro come unico mezzo per migliorarsi) realizzato il suo personale sogno americano si ritrova a non essere nessuno, umanamente privo di una memoria, di una vera personalità, completamente alienato.

Quattro romanzi crudi e magnifici, spietati e terribilmente sinceri. Assolutamente da leggere! QUI il link al sito dell’editore per prezzi e dettagli! Buona lettura.