Guardando in Tv (su Netflix) il documentario White Hot: The Rise & Fall of Abercrombie & Fitch diretto da Alison Klayman, mi è venuta una gran voglia di raccontarlo anche perché in questo preciso momento storico, complice il PNRR, molte aziende si stanno trovando nelle condizioni di fare i conti con dei concetti che dovrebbero naturalmente rappresentare la base di un vivere civile, la Diversity & Inclusion.
Ma partiamo dall’inizio.
Abercrombie & Fitct è un brand storico statunitense, da fine Ottocento (1892 per la precisione) fino al 1992 (anno in cui il marchio finì nelle mani di Mike Jeffries e del famoso magnate del retail Leslie Wexner) ha venduto abiti e accessori per la caccia (ecco perché nei negozi c’era sempre una testa d’alce!), annoverando tra i suoi clienti il Presidente Teddy Roosevelt e lo scrittore Ernest Hemingway (quest’ultimo nel 1961 decise di togliersi la vita proprio con un fucile Abercrombie & Fitch), insomma un target di clienti maschi, benestanti, amanti degli sport all’aria aperta.
Ma i tempi cambiano e la città di New York, dove il brand è nato, non si adattava più a quel tipo di acquirenti per cui quando sono arrivati Jeffries e Wexner a cambiare tutto con uno stile che strizzava l’occhio ai più costosi Calvin Klein e Ralph Lauren il successo non ha tardato ad arrivare.
Ma chi erano questi due personaggi del business americano?
Mike Jeffries si era già fatto notare per aver fondato nel 1984 Alcott & Andrews, un marchio di abbigliamento femminile dedicato alle donne in carriera che inizialmente ebbe molto successo ma in seguito, a causa di scelte commerciali troppo ambizione connotate dall’ “overexpansion” fallì e chiuse nel 1989.
Su Jeffries si sa pochissimo, non è neppure sicuro se sia nato nel 1944 o nel 1945! Personalità sicuramente piena di ombre - non si fatica a immaginare con quali demoni facesse i conti ascoltando le testimonianze degli ex dipendenti dei negozi Abercrombie – ma anche creativa, capace di catalizzare l’attenzione, di perseguire obiettivi.
Su Wexner invece sappiamo molte più cose, nel mondo retail è considerato maestro assoluto, sono un suo “prodotto” i negozi di Victoria Secret (fino al 2021 è stato presidente emerito dell’azienda di biancheria intima più famosa del mondo) per citare un marchio che conosciamo anche noi in Italia. Uomo ricchissimo in grado di far fruttare al massimo ogni idea, prende un marchio “morto” e lo fa diventare oro, come è successo anche con Abercrombie.
Wexner però ha avuto nella sua vita (oggi ha 84 anni) anche tante amicizie che si sono rivelate cattive come quella con Jeffrey Epstein il manager morto suicida nel 2019 in carcere dopo l’accusa di pedofilia e abusi sessuali.
La coppia di businessman lancia sul mercato una linea di vestiti non particolarmente di qualità ma che si avvalevano di testimonial molto più efficaci delle star, i ragazzi delle confraternite universitarie degli Stati Uniti.
Maschi, bellissimi, popolari tra i coetanei, americani caucasici, fotografati da Bruce Weber.
Il ruolo del fotografo di Greensburg, Pennsylvania, fu centrale nella storia di Abercrombie & Fitch soprattutto perché nel bene e nel male aveva già fatto una rivoluzione nel mondo della fotografia cambiando completamente la percezione della mascolinità.
Sui gusti sessuali di Weber e Jeffries non è necessario dire nulla, le foto e le campagne pubblicitarie di Abercrombie ci mostrano ragazzi quasi completamente nudi (genialità assoluta pubblicizzare vestiti con modelli nudi), sono sempre maschi e anche se il marchio aveva anche una linea femminile lo si collega spontaneamente a dei corpi maschili, quelli che abbiamo visto per anni sulle porte degli stores ammantati dall’inconfondibile profumo.
Il loro inseguire i ragazzi popolari, creare una moda esclusiva basata non sul concetto di qualità ma su precisi canoni estetici è stata la scelta che ha fatto la fortuna e la sfortuna del marchio.
Oggi non avrebbe avuto il successo che ha avuto negli anni Novanta e ci è voluto parecchio perché gli americani si rendessero veramente conto di quali valori si stava facendo portatore Jeffries con suoi negozi che pian piano si erano diffusi in tutto il mondo.
La miccia dello scandalo fu innescata da un gruppo di ragazzi di origini asiatiche che cominciarono a protestare per le scritte chiaramente razziste delle T-shirt che Abercrombie & Fitch metteva sul mercato e che andavano letteralmente a ruba, una di queste diceva “ Two Wongs can’t make it white” Due Wong non possono renderlo bianco, l’ironia era basata sul fatto che spesso gli asiatici sono proprietari di lavanderie negli Stati Uniti. Il riferimento razzista era chiarissimo, da quel momento in poi, tutto apparve per quello che era veramente.
Ragazze e ragazzi di etnie diverse si resero conto che potevano aspirare solo a fare le pulizie di notte nei negozi Abercrombie, non c’era spazio per loro alla luce del sole.
A quel punto l’azienda fu presa di mira, si formò una class action di ex dipendenti messi alla porta per motivi razziali che si concluse con un patteggiamento e nessuna ammissione di colpevolezza da parte dei vertici aziendali che si difesero dicendo che in realtà non scartavano le persone per la razza ma semplicemente perché non le ritenevano abbastanza belle (il che è altrettanto allucinante e sempre di discriminazione si tratta no?).
Fu imposta alla Abercrombie & Fitch la figura del Diversity & Inclusion Manager perché monitorasse le assunzioni ma questo non bastò a risollevare il marchio che piano piano si avviò verso un declino dettato anche dai tempi che stavano cambiando e richiedevano una moda diversa dove l’inclusione non poteva essere frutto di un provvedimento legale.
Dal 2017 la CEO del marchio è Fran Horowitz-Bonadies che sta facendo il possibile per “ripulire” il brand dalle accuse del recente passato ma oramai i fasti di un tempo sembrano essere del tutto dimenticati.
Qualche numero:
Nel 2008 Abercrombie & Fitch realizzava un fatturato di 3,54 miliardi di dollari, nella prima metà del 2011 poteva contare su una capitalizzazione di mercato di oltre 6 miliardi di dollari.
Nonostante ciò l’idea di Jeffries, fondata essenzialmente sull’estremizzazione dell’immagine che rappresentava il marchio, non aveva speranza di sopravvivere con l’arrivo dei social network e quindi a poco è servito e serve l’attuale caption su IG che dice “Abercrombie & Fitch TODAY”, chiaro desiderio di tagliare col passato …
Di brand che fanno cose analoghe ne esistono di certo anche oggi, solo sono più bravi a districarsi con le esigenze sociali di diversity & inclusion.
Il documentario ve lo consiglio vivamente se siete appassionati di comunicazione, c’è la giornalista Premio Pulitzer Robin Givhan, ci sono le testimonianze di tanti ex dipendenti, c’è l’immagine di una America anni Novanta e soprattutto emerge la miopia anche di tutti noi che quando ci siamo trovati a entrare in un negozio di Abercrombie & Fitch (io sono stata più volte in quello di Milano con amiche che andavano a comprare vestiti per i figli adolescenti) probabilmente lo abbiamo semplicemente trovato sopra le righe, senza fermarci a osservare meglio il contesto.
In quanto ai protagonisti di questa vicenda:
Di Mike Jeffries e Lieslie Wexner sinceramente poco mi importa, mi dispiace invece per Bruce Weber che non esce benissimo da White Hot: The Rise & Fall of Abercrombie & Fitch, diciamo che una volta ascoltate le testimonianze degli ex dipendenti dei negozi si tende a dimenticare le sue doti di grande fotografo (le sue foto sono ospitate in una mostra permanente presso il Victoria and Albert Museum di Londra e il Museo di arte moderna di Parigi) e regista.
Ma anche l’idea di fotografia di Weber a questo punto è superata, la sua America fatta di giovani bellissimi e pronti a vivere una vita di successi è qualcosa a cui nessuno ha più voglia di credere, neppure per finta!